giovedì 12 agosto 2010

Il fattore “P”

Dove la “P” sta per pigrizia intellettuale, direttamente proporzionale alla diffusione del fattore “G”, il fattore “Google”. Se ne discute su vari blog da tempo, ma adesso che anche un giornale di elevato spessore e caratura se ne è occupato, speriamo che l’attenzione continui a salire su su fino alle sfere istituzionali. E già, perché l’articolo in questione ha un titolo cristallino “G-dipendenti e copioni. Bocciati i giovani sul web” e prende le mosse da uno studio (Trust Online: Young Adults' Evaluation of Web Content) di alcuni ricercatori della Northwestern University di Chicago, pubblicato sulla rivista International Journal of Communication” (Vol 4 2010). La ricerca ha interessato circa un migliaio di giovani americani tra i 18 e i 20 anni e ha messo in luce alcune “inquietanti” tendenze (così vengono definite dall’articolista) che, in breve, possono essere così riassunte: la rete è lo strumento maggiormente utilizzato per le ricerche; l’attendibilità di quanto trovato e delle fonti non è una questione avvertita come necessaria; i motori di ricerca sono assurti a dispensatori di verità assolute e indiscutibili; scarsa conoscenza dei principi regolatori degli algoritmi di ricerca (PageRank di Google, per esempio, che indicizza i siti in base ai collegamenti con altri indirizzi IP); affidamento immediato sul primo risultato, in ordine di apparizione, sulla pagina del motore di ricerca utilizzato; scarsa capacità di discernere tra pubblicità e link in primo piano; indifferenza verso gli autori dei materiali reperiti online; maglie larghe nei confronti del “cut & paste” selvaggio, effettuato con disinvoltura. Da quanto appena scritto, si capisce come siamo di fronte a un bel “fritto misto”, un insieme delle abitudini più “scorrette” da un punto di vista di etica online o netiquette della ricerca. Partendo dal problema del “copia e incolla”, non mi soffermerei solo sulla “seria violazione delle regole scolastiche”, come scritto nell’articolo. Anzi, direi, che a cascata tale questione si porta dietro le altre e il titolo del post. Andare alla ricerca delle fonti, capire se quanto trovato è di qualità oppure no, verificare, approfondire non deve essere concepita come una pratica da “secchioni” (come per es. non fermarsi mai alla prima definizione o traduzione reperita su un vocabolario italiano o di lingua straniera). Dovrebbe essere la normale prassi che motiva e stimola la curiosità intellettuale. Aspetto questo che ha fatto dell’homo sapiens sapiens ciò che è oggi (con tutte le inevitabili eccezioni, ovviamente). Nell’articolo è scritto che “in tanti si affidano acriticamente ai grandi marchi e a rotte di navigazione già percorse, rinunciando al brivido della scoperta a vantaggio della pigrizia mentale” (è chiaro come lo spunto per il titolo del post sia venuto da quest’ultima espressione). Come non essere d’accordo. Su vari blog, compreso questo, si è spesso dibattuto della necessità di un uso consapevole della tecnologia e dei mezzi offerti dalla rete. Il problema è sempre lì: i nativi digitali hanno fra le mani strumenti preziosi, ma di cui conoscono o hanno imparato a conoscere solo una piccolissima parte. Gli immigrati digitali se da un lato hanno sempre il fiato grosso per stare dietro al vorticoso correre della net generation, dall’altro hanno il background culturale per vedere oltre la tecnologia e ravvisare le potenzialità degli artefatti tecnologici che repentinamente si trasformano attorno a noi. La pigrizia però non è solo dei nativi, ma anche degli immigrati. Troppo scomodo provare, sperimentare e rimettersi in discussione. Speriamo solo che l’articolo di Repubblica non diventi la solita arma a doppio taglio, per i pigri, per affettare e impacchettare il futuro. Un’ultima chiosa sul concetto di diritti d’autore. In un altro post ho argomentato sulla necessità della “conoscenza come bene comune” e mi sento di affermare che, sulla questione dei “diritti d’autore” o del “copyright”, non condivido posizioni catastrofiche, censorie o millenariste. Michael Wesch, nel suo video “The machine is us” ci suggerisce di rivedere e ripensare alcuni concetti quali “copyright, identità, etica, estetica, retorica, governo, privacy, commercio, amore, famiglia, noi stessi”. Sono sempre più d’accordo con lui e continuerò a supportare e difendere il motto “libera conoscenza in libero mondo” perché, come dicono Charlotte Hess e Elinor Ostrom nell’introduzione al loro libro, “la conoscenza genera vantaggi per tutti nella misura in cui l’accesso a tale patrimonio sia aperto a tutti”. Dimenticavo. L’indagine della Northwestern University si riferisce a giovani americani. Domanda: ma siamo sicuri che, in Italia, le cose stiano diversamente? Da quello che vedo e sento una risposta, forse, l’ho già in mente.

venerdì 23 luglio 2010

Nuovi abitanti antiche questioni

Palinuro (SA). Ore 11:50. Vacanze, mare cristallino, cielo limpido, sole, ottimo cibo, l'amico Conrad sotto l'ombrellone e area wi-fi. E già: ormai tutti, o quasi tutti, i villaggi, campeggi, alberghi, e così via, hanno la loro brava "wi-fi zone" e i clienti, me compreso, sembrano apprezzare molto il servizio. Da qualche anno, tra le innumerevoli cose da portare in vacanza, non mancano uno o addirittura più portatili, cellulari smartphone, IPhone (fra poco IPad) e chi più tecnologia ne ha più ne metta. Avrei voluto prendermi una vacanza dalla stessa (come suggerisce Ernesto, segnalando l'articolo "Take Your Vacation - Please"), ma vuoi per la tesi di Dottorato, vuoi perché nell'area wi-fi del Villaggio ci sono più portatili che tavolini, non ci sono riuscito completamente (con mio grande rammarico). Ieri ho assistito a due scene / situazioni, a mio avviso emblematiche. La prima rappresenta, forse più di libri, articoli, post e quant'altro, l'evoluzione dell'homo sapiens sapiens a homo connecticus. Sedute a un tavolino ho visto una ragazza, di circa quindici anni, che navigava (e chattava) con disinvoltura; al suo fianco la nonna che ricamava all'uncinetto con espressione rilassata. Nessuna delle due, con molta probabilità, aveva la benché minima idea di quello che faceva l'altra, ma davano l'impressione che una serena coesistenza tra i due "mondi" è possibile. Quasi contemporaneamente, due bambini, 9/10 anni uno 5/6 anni l'altro, si sono avvicinati e mi hanno chiesto aiuto per collegare un portatile alla presa della corrente. Da bravo futuro papà mi sono prodigato e poi, ingenuamente, ho chiesto se avevano bisogno di altro per utilizzare il PC (il sole mi aveva dato alla testa). L'ovvia risposta del grande è stata: "no, grazie: so benissimo cosa fare". Consapevole della gaffe, ho girato i tacchi e con la coda dell'occhio ho scorto il piccolo che maneggiava con sicurezza uno smartphone di ultimissima generazione. Nel frattempo, però, mi sono reso conto, con un'intuizione fulminea, che non c'erano i genitori in giro. Risultato: i due bimbi hanno continuato a stare lì per un'oretta buona, finché il piccolo non ha detto di avere fame. Allora, altro aiutino per staccare la presa e via verso la pasta asciutta. Non è una favola di LaFontaine, ma forse gli assomiglia, adattata naturalmente al XXI secolo. Non c'è morale da cercare, c'è solo da fare qualche considerazione. Come scrive Giorgio Jannis sul Blog Nuovi Abitanti, "i bambini sanno cosa fare su internet. Guardano Youtube, hanno i loro siti preferiti per giocare, vanno a cercare informazioni sui cartoni animati preferiti o su Harry Potter o Lady Gaga, conoscono Wikipedia. A partire dalle scuole medie, o anche per quelli di quarta e quinta elementare, il riferimento nei loro discorsi a cose viste in Rete è costante, il web è un Luogo abitato, e tanto quanto a quell'età espandono il loro orizzonte verso il vicinato e i gruppi di amici, così esplorano territori indifferentemente fisici o digitali". Questo significa che diventa imprescindibile un'educazione ai media, prima per genitori e insegnanti, in modo che siano in grado di dare ai propri figli / alunni le giuste coordinate per utilizzare al meglio i nuovi strumenti. L'assenza dei genitori dei due bambini non va vista come un'illuminata lungimiranza tendente all'indipendenza dei pargoli, quanto piuttosto una censurabile negligenza: l'impressione che ho avuto (in stridente contrasto con la scena precedente) è che il portatile e lo smartphone rischiano di sostituire il ruolo che aveva la TV fino a una generazione fa e cioè surrogato della presenza parentale (inoltre qualcuno, emulando Popper, potrebbe poi scrivere un saggio dal titolo "Cattivo maestro computer"). Il rischio principale è soprattutto di sprecare l'enorme chance di far acquisire ai nostri figli / alunni le corrette competenze digitali per (cito ancora Jennis) "renderli Abitanti anche del nuovo mondo immateriale, il web in cui vivono a pieno diritto".

mercoledì 7 luglio 2010

Google for teachers

Mini-post per informare di un bel lavoro di Richard Byrne: Google for teachers II. Si tratta della seconda versione pubblicata. E' una guida rapida e maneggevole, in inglese, che illustra, passo dopo passo, come utilizzare tutte le applicazioni di Google, in ottica educativa e formativa. Materiale molto utile per tutti gli insegnanti che vogliano cimentarsi utilizzando tool gratuiti e intuitivi. Il post va nell'ottica e nella direzione dei 44 gatti di Catpol (cito e condivido appieno): "abilitare all’uso attivo, partecipato o anche solo utile di strumenti e canali a disposizione di tutti, nessuno escluso". Fuori dal piccolo orticello privato e dentro il mondo. Di conseguenza, partire da insegnanti ed educatori potrebbe essere un buon inizio.

sabato 26 giugno 2010

Change happens everywhere

Embedo, via Catepol, un bel video sui repentini cambiamenti che Internet ha portato negli ultimissimi anni. Il filmato è in inglese e inizia con una serie di confronti che danno immediatamente l'idea di ciò che succede ora, nel presente (il passaggio da: i media analogici a quelli digitali, il comando e il controllo, alla comunicazione e alla collaborazione, la produzione di massa alla produzione tra pari, innovazioni chiuse a innovazioni aperte), e continua con una serie di numeri veramente impressionanti. Da vedere. Mi permetto, inoltre, di segnalare uno strumento utilissimo, soprattutto nell'ambito della didattica delle lingue straniere: Edocza. Il servizio dà la possibilità di rintracciare e scaricare documenti in vari formati e in numerose lingue. Infine, per portare un ulteriore contributo al tema già discusso qui sulla conoscenza come bene comune e sempre nell'ottica dei cambiamenti che l'evoluzione di Internet sta portando nel mondo, consiglio di leggere l'intervista a Wayne Mackintosh, fondatore di WikiEducator. Il tema è l'importanza delle licenze di tipo Creative Commons (CC) come vantaggio competitivo nel campo della formazione e dell'educazione nel mondo digitale, il cui principio motore dovrebbe essere: condividere la conoscenza gratuitamente. Secondo Wayne, le licenze CC sono "l'aria che il movimento Open Educational Resources (OER) respira. Sono il facilitatore legale per affrontare il complesso tema della proprietà intellettuale nel campo dell'educazione e della formazione, aiutandoci a spostarci da una cultura restrittiva a una libera e aperta". E' da rimarcare che uno degli obiettivi di WikiEducator è "sviluppare risorse digitali libere e gratuite da mettere a disposizione per supportare tutti i curricoli nazionali entro il 2015". In Nuova Zelanda sono già partiti con un'iniziativa sperimentale, chiedendo la collaborazione degli insegnanti per lo sviluppo e l'aggiornamento dei materiali, tramite il progetto OERNZ. Change happens now!


lunedì 21 giugno 2010

Web tools per la didattica e altri spunti

Segnalo un bel lavoro di Ana Maria Menezes, insegnante di EFL (English as a Foreign Language) in Brasile, dal titolo: Web tools applied to teaching. E' un breve compendio in cui l'autrice elenca una serie di strumenti web-based e di tipo free da utilizzare nella didattica, soprattutto delle lingue straniere. Ogni scheda è corredata da esempi, proposte operative in aula e fuori e skill linguistiche coinvolte. Premesso che sono un convinto sostenitore delle risorse a disposizione di chiunque e utilizzabili da qualunque postazione, in un'ottica di lifelong learning, il lavoro di Ana Maria mi sembra un'ottimo punto di partenza per quanti desiderino aprire le proprie prospettive e percorrere nuove strade per innovare la didattica.



Embedo, di seguito (sempre nell'ottica di: blog = anche raccolta di appunti personali), una bella e sintetica presentazione sul tema del PLE (Personal Learning Environment), sul quale a breve scriverò un post più articolato.


Infine, chiudo segnalando il post di Pier Cesare Rivoltella, Scuola del futuro?, contenente una serie di interessanti spunti di riflessione, a seguito di un progetto annuale sviluppato in alcune scuole. I filoni da lui individuati sono essenzialmente tre: mind the gaps (importanza di tenere conto delle distanze / differenze, per esempio quelle tra nativi digitali e docenti); considerare la complessità (quindi progettare bene i passaggi per inserire le tecnologie in aula in modo proficuo); frequentare i confini (abbandonare i punti di vista puri, ma, per esempio, iniziare a tener conto anche degli incroci e delle contaminazioni tra saperi).

sabato 5 giugno 2010

A proposito di buona educazione

E' sempre stata una prassi quando ero bambino (e poi anche dopo), nella mia famiglia e credo in moltissime altre, ascoltare le raccomandazioni dei "grandi" prima di andare da qualche parte, soprattutto se dovevamo avere a che fare con "altre persone". Ci sembravano petulanti, noiose, ripetitive, inutili. Qualcuna la rispettavamo, qualcun'altra no, sperando di sfuggire agli occhi vigili dei controllori e godendo del gusto peccaminoso del proibito: disubbidire a ordini metodicamente impartiti. Crescendo, ovviamente, ci siamo resi conto dell'importanza di alcuni atteggiamenti da tenere in società, non quella dei romanzi di Tolstoj o di Balzac, ma la comunità in cui viviamo, lavoriamo, ci divertiamo, ma soprattutto dove abbiamo la fortuna di confrontarci, quotidianamente, con altre "unità carbonio" (concedetemi questa licenza dal film Star Trek del 1979), dotate di una loro intelligenza, di una loro visione del mondo, di una loro sensibilità: insomma del loro carattere. Alla fine ci siamo resi conto della crucialità del concetto di "rispetto", anche se, con buona pace della coerenza, lo pretendiamo nei nostri confronti, ma fatichiamo molto a concederlo a chi ci sta di fronte. Scrivo ciò dopo aver letto, almeno tre volte, il bellissimo post di Sergio Maistrello. Commentando lo scritto, ho promesso che avrei diffuso, da questo blog, le sue parole, invitando a leggerle anche nelle scuole; magari dal prossimo settembre visto che ormai l'anno si è virtualmente concluso. Sergio ci fornisce un decalogo, in versione beta, su ciò che implica scrivere, condividere e vivere online. Le Rete offre immense opportunità, ma spesso dimentichiamo che Internet non è una zona franca dove è sufficiente avere un avatar, uno pseudonimo, una faccia qualunque per potersi dissimulare e, quindi, calpestare, magari non intenzionalmente, le regole più elementari della vita sociale. Cito ancora Sergio: "ci sono milioni di persone, là fuori, che pensano di guidare un triciclo al parco giochi e non si rendono conto di essere invece al volante di un bolide in autostrada. Possono farsi male e possono fare del male agli altri. Nella più assoluta buona fede, sono inconsapevoli della dimensione in cui stanno operando e delle ripercussioni delle loro azioni sociali. Strumenti come Facebook richiedono ai loro utenti di maturare in pochi giorni un’alfabetizzazione alla socialità digitale che noi più fortunati pionieri della socialità digitale abbiamo invece avuto modo di sviluppare nel corso degli anni". E' maledettamente vero. In questo blog si è sottolineata più volte l'importanza di un'educazione consapevole alle tecnologie. Soprattutto per quanto riguarda quelle della "comunicazione", cioè tutti i mezzi che permettono un contatto trasversale e immediato con chiunque e una condivisione quasi illimitata. I link si incrociano in una spaghetti junction inestricabile con il risultato di ingigantire, ogni secondo di più, l'immenso ipermedia che è la Rete o meglio che sono le reti, comprese quelle di interazione sociale che si creano e si disgregano con estrema facilità. Molti hanno teorizzato di una frantumazione dei confini geografici degli Stati a vantaggio di un'umanità trasversale, costituita da masse che si aggregano e si spostano in continuazione, seguendo rotte variegate. In questo quadro, mi sento di sottolineare con grande convinzione, tra i dieci spunti, il nono che così recita: "Sei nodo in una rete, anello in una catena. Ogni tua azione ha una conseguenza, seppur minima, a livello di sistema. Sei libero di pensare, esprimere e condividere quello che ti pare: quello che ci si aspetta da te è che sia quanto meno un’azione consapevole e ponderata". Di conseguenza, tutti i piccoli ingranaggi della catena hanno la propria dignità e un potere rilevante. Il riferimento di Sergio mi fa venire in mente una celebre variazione al tema del cosiddetto effetto farfalla: "il minimo battito d’ali di una farfalla è in grado di provocare un uragano dall’altra parte del mondo". Nel nostro caso specifico, il concetto può essere applicabile a un anonimo individuo (uno come noi), chiuso nella sua stanza, in uno sperduto paesino dei nostri monti che, in pochi clic, entra in contatto con centinaia, migliaia di persone, con la possibilità di scrivere qualunque cosa in grado di influenzare pesantemente il loro modo di essere e di vivere. Ecco perché, e lo ribadisco ancora una volta, è necessario che le Istituzioni si concentrino sul mondo frequentato dai nativi digitali e sulle loro abitudini che, è bene ricordarlo sempre, sono molto, molto distanti dai modelli educativi e comportamentali attuali. Insisto e continuerò a insistere sul ruolo strategico della Scuola che deve tornare a essere palestra di vita e di speranza. I ragazzi non hanno bisogno di magistri, bensì di insegnanti capaci di guidarli in maniera costruttiva e aiutarli nel padroneggiare le possibilità offerte dagli attuali strumenti a disposizione. Guardando al futuro e non ripiegandosi sul presente. Le nozioni possono essere apprese in molti contesti e in molti modi; le strategie migliori "per imparare" in maniera proficua, produttiva e continua, no. C'è bisogno di questo. La ricetta non è complicata e il fiume da guadare non è poi così profondo. Ci vuole coraggio. Ce lo chiedono i nostri figli.

martedì 25 maggio 2010

L'apprendimento è sociale?

Ho seguito con interesse una diatriba oltre oceano sulla natura dell'apprendimento: c'è chi sostiene che si tratti di una pratica essenzialmente sociale e chi, invece, afferma l'esatto contrario. A parte la mia naturale repulsione verso posizioni troppo rigide che non contemplino una scala di grigi, credo che la questione non sia da porre in termini di “contrapposizione tra guelfi e ghibellini”, né di asserzioni nette. Le mie riflessioni, ovviamente, sono da considerarsi nell'ottica della glottodidattica e delle dinamiche sottese all'acquisizione / apprendimento di una o più lingue straniere. In breve, la mia idea è che l'apprendimento sia, prevalentemente, una pratica sociale, ma anche che una componente di riflessione o meta-riflessione di natura personale o "privatistica" contribuisca a completare il processo in maniera efficace. Una lingua è “un mezzo per raggiungere scopi, un’espressione di un rapporto di ruolo sociale, un indicatore di appartenenza a un gruppo, un’espressione di una cultura, uno strumento del pensiero e uno strumento di espressione” (Balboni, 2002, p. 59-60). L’acquisizione/apprendimento di una lingua straniera si caratterizza, di conseguenza, per essere un processo sociale, basato sul contenuto e sulla “lingua reale”, che si sviluppa nell’interscambio con il mondo e le persone. Il primo riferimento alla dimensione sociale della lingua è dell’inglese John Rupert Firth che, già negli anni ’30 del XX secolo, teorizzava una filosofia del linguaggio basata sullo stretto rapporto tra lingua, cultura e società. Inoltre, sosteneva che la lingua andasse studiata nella sua accezione di fenomeno sociale e, di conseguenza, in situazioni reali d’uso. Successivamente, negli anni ’60, Dell Hymes introdusse il concetto di competenza comunicativa, mentre, qualche anno dopo, M.A.K. Halliday (1978) focalizzò la sua attenzione sulla funzione sociale del linguaggio. Di recente, il cosiddetto approccio socio-glottodidattico, ha come finalità quella di “sviluppare nei discenti una sensibilità socio-linguistica che consenta loro di diventare sempre più indipendenti nella comprensione e nella gestione dell’uso sociale della lingua” (Santipolo, 2010). Da quanto appena illustrato, si evince che nella letteratura riferita alla ricerca sulla didattica delle lingue straniere, l'importanza del contesto sociale nell'acquisizione / apprendimento è stata ampiamente assodata e dimostrata. Uno dei problemi che, infatti, affligge costantemente il docente è la scarsa esposizione dei suoi studenti alla lingua target. Tant'è che la soluzione spesso proposta dagli educatori è consigliare un periodo di immersione totale nel paese di riferimento, dove sussistono le condizioni per un'acquisizione naturale (Krashen, 1982). La fase di elaborazione personale è, però, necessaria, per sedimentare e rendere acquisite le strutture incontrate. Ed è qui che diventa cruciale il compito del docente: fornire allo studente gli strumenti per creare il proprio percorso di apprendimento consapevole, al di fuori del contesto meramente scolastico, in un’ottica di Lifelong and Lifewide Language Learning. Uno studente autonomo è, infatti, capace di elaborare strategie meta-cognitive riguardanti le operazioni di progettazione, selezionare metodi e strumenti idonei per realizzare il proprio percorso, auto-valutarsi e rapportarsi agli altri in maniera cooperativa (capacità socio-affettive). In questo scenario le tecnologie e, di recente, soprattutto quelle di rete, possono contribuire a creare un ambiente di apprendimento, per le lingue straniere, motivante ed efficace in cui il discente può essere aiutato a potenziare le varie abilità linguistiche, ma anche a riflettere sulla lingua e sul suo continuo evolversi, sulle strutture, sulla cultura e sull’importanza di acquisire strategie utili e produttive sia nell’immediato sia in prospettiva.

Embedo, di seguito, il video di David Truss, della durata di quattro minuti circa, sull'importanza di essere un networked teacher ("A brave new world-wide-web"). Segnalo una sua affermazione, riferita al rapporto tra insegnante e tecnologie, che dovrebbe essere spesso tenuta in considerazione: "See the opportunities rather than the obstacles" ("Vedi le opportunità e non gli ostacoli" o "Concentrati sulle opportunità e non sugli ostacoli").

domenica 23 maggio 2010

Barcamp InnovatoriPA 2010: un'occasione persa...per me

Riflessioni su quello che avrei voluto dire e non ho detto, ma che ho pensato e penso da tempo, anche su spunti altrui.

Questo post serve soprattutto a me per "esorcizzare" la delusione per non essere stato presente, per svariati motivi, all'evento. Almeno sono riuscito a guardare lo streaming con le micro-presentazioni da 5 minuti della mattina del 19 maggio. L'entusiasmo, gli spunti, le idee, le suggestioni dei relatori e anche quelle che, di certo, saranno emerse durante i tavoli del pomeriggio dimostrano che c'è una grande vitalità tra gli Innovatori, risorsa importante e decisiva per ravvivare lo spento flusso di motivazioni all'interno della PA. Quest'ultima (da quella centrale, agli enti locali, al mondo della formazione e dell'istruzione) si muove e cambia rotta con la velocità di un bradipo, ma non credo potrà continuare a fare a meno in eterno dei fermenti che provengono dal gruppo Innovatori. Il nostro paese soffre di molteplici croniche contraddizioni tipicamente "italiche": da un lato il Ministro della Funzione Pubblica promuove la digitalizzazione delle PA, dall'altro vieta l'uso di Facebook in ufficio; oppure vengono premiati gli istituti scolastici (durante il convegno “A scuola di innovazione”), mentre i docenti continuano a sequestrare i cellulari ai propri alunni in aula. Due miei amici hanno partecipato e hanno contribuito con interventi puntuali ai lavori: sono d'accordo con Ernesto e con la sua declinazione dei "Dieci comandamenti dell'amministrazione digitale" (a proposito, mi ha promesso che posterà le slide), soprattuto con il quinto: "Basta con i progetti pilota e le sedi campione". Anche in questo blog, infatti, per la parte educativa, si è detto dell'importanza di chiudere la fase delle sperimentazioni sull'uso delle tecnologie nella scuola per passare a un secondo step e cominciare a ragionare sulla revisione dei curricoli, in ottica digitale. Come non condividere l'appello di Caterina (qui la sua presentazione) a non temere e vietare i social network che hanno nella condivisione di conoscenza il cuore pulsante. Spesso, infatti, trascinati da posizioni ideologiche, molti dimenticano quanto l'antropologia ci ha spiegato e cioè che l'uomo è un animale sociale: vive in un contesto, migliora o peggiora a seconda delle relazioni che costruisce, impara dagli altri e con gli altri e, contemporaneamente, insegna agli altri. I social media sono la naturale evoluzione delle modalità con cui le dinamiche sociali si sviluppano nel XXI secolo. Nella mia vita lavorativa, ho avuto la fortuna di far parte dei vari comparti della PA (scuola, università e, da poco, Regione) e posso affermare che la questione non si pone in ambito "professionale". Ci sono tanti bravi operatori che amano il proprio lavoro e sono pronti a fare i passi necessari per innovare le loro competenze e migliorare le condizioni dei servizi offerti ai cittadini. E' tempo di attuare una svolta radicale, non necessariamente in termini di infrastrutture tecnologiche (anche se il tema del digital divide è sempre attuale, ovunque), quanto piuttosto di approccio e cioè educare alla consapevolezza dell'uso dei social media (cito Caterina e sono tremendamente d'accordo con lei). Al di là di considerazioni etiche, educative, professionali, giuridiche, è una questione di opportunità. Il compito di tutti è e sarà far riscoprire e far apprezzare la bellezza di potersi esprimere liberamente, condividere, diffondere, argomentare, ma, soprattutto, avere il coraggio, se e quando si avverte la necessità, di cambiare idea.

sabato 22 maggio 2010

La mia tesi

Con inspiegabile ritardo, e quindi non so francamente fornire le motivazioni, embedo qui la presentazione della mia tesi che ho da pochissimo caricato su Slideshare.

lunedì 17 maggio 2010

Social Media Revolution

Posto qui, anche per mio promemoria, la seconda versione del video "Social media revolution" che, tra i tanti pubblicati sul tema, mi sembra uno dei più sintetici e molto straight to the point. I tre dati che mi hanno maggiormente colpito, in ottica educativa, sono: oltre il 96 % dei millennial (nativi digitali) ha un profilo su un social network; se Facebook fosse un paese, sarebbe il terzo più popolato dopo Cina e India; uno studio recente dell'US Department of Education ha sottolineato come le prestazioni degli studenti online superino quelle dei loro colleghi impegnati in lezioni esclusivamente frontali. Sono temi già abbondantemente trattati in questo blog, ma fa riflettere come sia sempre più necessaria un'attenzione particolare verso il mondo dei natvi digitali che si sviluppa e cresce fuori dalla scuola e non solo in senso letterale, riferito alle mura dell'istituto, ma anche da un punto di vista "culturale" e di aproccio. Il senso del video è che si tratta di una vera e propria rivoluzione nel modo di comunicare. I ragazzi lo hanno afferrato al volo, la Scuola no. E a ciò si lega il fatto che i docenti di lingue straniere dovrebbero, per primi, guadare il fiume, con coraggio. Imparare una lingua diversa dalla propria è soprattutto un atto comunicativo e sociale e, perciò, non può prescindere dai mezzi che il mondo usa per comunicare. Von Humoldt diceva che "non si può insegnare una lingua, si possono al massimo creare le condizioni perché qualcuno l’apprenda". Ebbene, agli inizi del XXI secolo le condizioni, gli strumenti e la consapevolezza sono cambiati. E' ora che le istituzioni educative seguano la corrente e si adattino agli input che provengoni dal di fuori delle aule scolastiche, invece di ostinarsi a remare contro o peggio a volgere lo sguardo da un'altra parte.

domenica 2 maggio 2010

La conoscenza come bene comune

Sto leggendo un interessantissimo libro, il cui titolo è anche quello del post, di Charlotte Hess e Elinor Ostrom (Bruno Mondadori Editore, edizione italiana curata da Paolo Ferri), che raccoglie una serie di contributi sul tema del libero acceso alla conoscenza (è stata anche aperta una pagina dedicata su Facebook). Non ho intenzione di addentrarmi nelle questioni legate al copyright e alle possibilità di un suo ripensamento nell’era digitale (a tal proposito rimando al Blog di Ernesto Belisario per eventuali approfondimenti), ma di affrontare il tema da un punto di vista di opportunità. Le tecnologie e l’avvento del social web hanno trasformato la Rete e, di conseguenza, il modo di fare, produrre, condividere informazioni e conoscenza. L’utente è diventato un “prosumer” (neologismo creato dal futurologo Alvin Toffler nel 1980, formato dalle parole producer e consumer) e, in quanto tale, contribuisce direttamente ad aumentare e potenziare il Web e farlo diventare un immenso database di risorse in continuo aggiornamento. Una delle modalità di distribuzione e accumulo della conoscenza è l’operazione di condivisione dei link, strumento contenuto in tutti i social media oggi disponibili (su Facebook, per esempio, gli utenti ne condividono circa 25 miliardi ogni mese). Di recente ho letto una notizia sul Corriere della Sera relativa alla funzione “Like” (“Mi piace”), che è un modo per accrescere la popolarità di status, notizie, link, ecc. Ebbene, pare che il popolare social network stia puntando molto su questo “tasto” che è anche comparso sui siti web della CNN (“Recommend”) e di Internet Movie Database (“Like”). A breve potrebbe essere utilizzato su quelli di Wikipedia e del New York Times. Il potenziale, in termini commerciali, è evidente, ma credo anche a livello di diffusione di conoscenza, intesa come somma delle manifestazioni umane che comportano un accrescimento del sapere collettivo e, di conseguenza, del bacino di informazioni a cui dare maggiore o minore risalto. Si va, dunque, sempre più verso un mondo in cui sarà essenziale il libero accesso al sapere e il concetto di conoscenza come bene comune avrà un peso specifico decisivo. A questo si lega il fatto che uno degli aspetti più dirompenti di tutti i tool a disposizione dei prosumer è la portabilità, cioè accedere alle risorse proprie ed esterne praticamente da qualunque postazione. Jimmy Wales, fondatore del progetto Wikipedia, intervenuto al "Festival delle Città Impresa 2010", tenutosi a Borgoricco (PD) il 24 aprile 2010, con un talk intitolato “La conoscenza si sviluppa in rete”, ha sottolineato alcuni aspetti importanti sull’evoluzione del mondo nel XXI secolo, dove la gente ha sviluppato una profonda passione per l'informazione e la conoscenza. Nel 1972 Charles van Doren, uno degli editori dell'Enciclopedia Britannica, dichiarò che “l’enciclopedia ideale dovrebbe essere radicale e smettere di essere sicura”; in realtà non è stato così, nel senso che le enciclopedie sono state prodotte sempre con metodi tradizionali e di grande qualità. Wikipedia, invece, nasce da un’idea radicale: “immaginare uno mondo in cui ciascuna persona sul pianeta abbia libero accesso a tutto il sapere umano”. Il termine “free” è inteso come gratuito e libero e, quindi, i contenuti sono accessibili, liberamente modificabili e adattabili. Il progetto si fonda principalmente su due pilastri e cioè collaborazione e condivisione. Quest’ultimo fa anche da motore propulsore per molte iniziative nei paesi in via di sviluppo, basate sulla conoscenza di Wikipedia distribuita a persone che non possono accedere a Internet. A mio avviso, comunque, andrebbero aggiunti altri due pilastri a quelli citati poc’anzi: il volontariato e la neutralità. Wikipedia ha solo 35 dipendenti, ma oltre 100.000 volontari (tra sviluppatori ed editor) che permettono di ridurre i costi, ma anche di “controllare” la veridicità e l’attendibilità dei contenuti proposti, tanto che gli errori riscontrati sono in numero minore rispetto a quelli dell’Encyclopedia Britannica: è il potere dell’intelligenza collettiva. E ancora. Il materiale proposto punta a una forte neutralità dal punto di vista politico: spetta a Wikipedia dare informazioni il più possibile corrette, in modo che la gente abbia gli strumenti adeguati per farsi un’idea e poter decidere da sola.

Nell’introduzione al testo di Hess e Ostrom, scritta a quattro mani dagli stessi curatori del volume, ci sono alcuni concetti da sottolineare e che i personaggi a capo dei nostri sistemi politici ed educativi farebbero bene a tener presente. La conoscenza è cumulativa e ciò “genera vantaggi per tutti nella misura in cui l’accesso a tale patrimonio sia aperto a tutti” e, quindi, va considerata come un bene pubblico “dal momento che, una volta compiuta una scoperta, è difficile impedire ad altre persone di venirne a conoscenza” (p. 10-11). Chiudo con la citazione di una frase di David Wiley, presa dal video di un suo intervento, “Openess in Education”, e che è rivolta, principalmente, agli insegnanti: “the most successful educators share most thoroughly with the most students” (gli educatori con maggior successo condividono a fondo con la maggior parte dei propri studenti).
 
A proposito di diffusione della conoscenza, di seguito embedo un video (via Web 2.0 and Something Else) molto ben fatto sulla storia di Internet e sul passaggio dal time sharing al file sharing. Da far vedere anche in classe.
 

sabato 17 aprile 2010

Wikipedia story

Un recente articolo di Repubblica recensisce un testo di Andrew Lih, un membro del gruppo storico della più famosa enciclopedia online, in cui viene raccontata e ricostruita la storia e l’evoluzione di questo grandioso fenomeno sociale di democratic knowledge sharing (La rivoluzione di Wikipedia, Codice Edizioni, 2010). Rimando al testo dell’articolo e alla lettura del libro per approfondimenti.

domenica 11 aprile 2010

Is Twitter dead?

Un post sull'uso di Twitter in ambiente accademico e il rapporto con Facebook. Le slide costituiscono un ottimo spunto di riflessione sui social network e il loro impiego nella didattica. Nel caso specifico si tratta di un lavoro su Shakespeare.


Appunti di viaggio...

Per viaggio, ovviamente, intendo viaggio sulla rete e sui blog che seguo. Ho trovato un sacco di cosette interessanti qua e là e così ho deciso di segnarmele:

- Un elenco variegato di infografiche sui social media, di cui fornisco un esempio (via Pingdom):




















- Un'infografica su come è cambiato il pubblico di Internet negli ultimi anni.

- Un counter carinissimo per "contare" e capire come ogni secondo che passa cambia la vita con e per i social network.

- Delle slide su comunità di pratica e social learning e sui nativi digitali.

- Il video in cui Adora Svitak spiega cosa gli adulti possono imparare dai bambini. Il video è in inglese, ma qui si può trovare un sintesi.



- Il video: The future of work, via Catepol.

sabato 3 aprile 2010

Un altro report sulle abitudini dei nativi digitali

La presenza sociale dei nativi digitali sui network (Facebook, Twitter, ecc.) è massiccia ovunque nel mondo, anche a discapito di forme di social media radicate e diffuse quali i blog. Alle indagini citate nei post precedenti, aggiungo un’altra della Pew Internet & American Life Project intitolata: Social Media and Young Adults, parte di una serie di report finalizzati a identificare le attitudini e i comportamenti della cosiddetta “Millennial generation” (Millennials. A portrait of generation next). L’indagine delinea una società (quella americana) in cui l’utilizzo dei blog tende a scemare nelle giovani generazioni (e non per gli adulti), a scapito di tipologie di microblogging che contemplano l’aggiornamento continuo dei propri status online. La presenza sui social network è aumentata considerevolmente per tutte le fasce di età: maggiormente per gli adolescenti (73%) rispetto agli adulti (43%). Facebook rimane, comunque, lo strumento più utilizzato. Quest’ultimo dato è confermato anche dalle informazioni presenti nell’infografica postata in All Facebook (via Catepol). Il popolare social network è passato da un milione di membri attivi nel 2004 a 400 milioni nel 2010, con l’Italia che si piazza al sesto posto tra i primi 10 paesi con il maggior numero di utenti (quasi 15 milioni). Il dato più significativo, a mio avviso, è quello relativo al numero di micro-contenuti (foto, video, link, post dai blog, ecc.) inseriti ogni mese, che è pari a 5 miliardi. Ciò significa un’impressionante e incontrollabile mole di informazioni scambiate tra gli utenti, con il rischio concreto di un “soffocamento informativo”. E’ questo forse il più grande quesito che la società e i sistemi educativi contemporanei si trovano ad affrontare. Nel XXI secolo tutti abbiamo a disposizione molteplici modalità e canali di accesso alle informazioni e, di conseguenza, la sfida maggiore è trovare i mezzi più efficaci per districarci tra link, rimandi, citazioni, post, ecc., e recuperare conoscenza utile al nostro percorso formativo (ormai è indiscutibile che l’apprendimento permanente sia parte vitale e imprescindibile della nostra esistenza). Il compito degli educatori è, poi, ancora più complesso, perché implica un secondo livello di analisi e cioè come guidare le giovani generazioni in questo oceano. Le istituzioni sono chiamate a confrontarsi al più presto con tale problematica e ogni giorno di ritardo è quantomeno deleterio per l’identificazione di buone prassi da esportare nel nostro sistema educativo, ormai obsoleto e non connesso.

venerdì 2 aprile 2010

Connecting and learning teachers

Lo spunto per questo post viene da un pezzo di Will Richardson intitolato “Connected teacher” che, a sua volta, muove da alcune riflessioni sulla bozza del National Education Technology Plan, elaborato dall’Amministrazione Obama sull’utilizzo effettivo delle tecnologie per migliorare la didattica e l’apprendimento nelle scuole americane (in fondo al post il video di Arne Duncan, Secretary of Education). Tra gli obiettivi che si pone il documento è quello di connettere gli insegnanti tra loro per migliorare le proprie capacità didattiche. Richardson suggerisce, a mio avviso in maniera calzante, che la partecipazione degli insegnanti a comunità di pratica richieda un livello molto elevato di partecipazione e condivisione, oltre a un altro aspetto forse ancora più decisivo: i docenti devono considerare se stessi soprattutto come learners (non a caso uso il termine inglese non tradotto) in classe insieme ai loro studenti. Inoltre, diventa cruciale il ruolo della formazione in servizio, in termini di indicazioni pertinenti su come utilizzare strategie efficaci per migliorare e potenziare il proprio apprendimento online, soprattutto in riferimento al problema dell’information overload. Questi aspetti sono, a mio avviso, nodali se vogliamo realmente un cambio di rotta sulla programmazione curricolare a livello nazionale. Gli Stati Uniti sono decisi a seguire questa rotta e noi a che punto siamo? Molteplici studi (Ferri, Rivoltella, ecc.) sottolineano che uno degli scopi della “scuola in era digitale” è quello di educare i ragazzi a un uso consapevole dei media, quindi la domanda è: il nostro sistema scolastico è pronto a supportare i docenti in questo delicato compito?
A questo proposito, un interessate spunto metodologico proviene dal modello elaborato da Dave Snowden, costituito da due dimensioni: una verticale, basata sul maggiore o minore livello di astrazione; e una orizzontale, basata sulla cultura, intesa come rapporto tra insegnamento e apprendimento. Le possibili interazioni sono quattro: Low abstraction - Teaching, i materiali sono quelli ufficiali e strutturati; Restricted abstraction - Teaching, è il campo degli esperti e il contesto è dato da sistemi professionali in campo educativo, mentre l’appartenenza alla comunità è formale piuttosto che informale; Restricted abstraction - Learning, il livello di astrazione è più orientato all'esperienza comune che al linguaggio specialistico, per comunicare in questi ambienti bisogna condividere esperienze, vissuto e valori. E’ anche l'area per la serendipity (secondo Bowles, la ricerca umana della conoscenza può avvenire per caso, o come sottoprodotto del compito principale, fonte: “Of serendipity”); Low abstraction - Learning, è lo spazio meno strutturato dove l’utilizzo di tecnologie di rete può essere più o meno utile.

Di seguito, il video in cui Duncan invita i docenti a postare commenti, video, esperienze sul National Education Technology Plan e chiude con una frase significativa: “Technology has the potential to transform education. With your help, we can make that happen” (La tecnologia ha il potenziale per trasformare l'istruzione. Con il vostro aiuto, possiamo far sì che ciò accada).

Visual social media

Da due post: uno di Catepol e uno di Stephen Downes. I social media spiegati con un breve video (in inglese). Rapido, efficace, diretto. Da guardare.

venerdì 26 marzo 2010

La valutazione nel social web

I docenti hanno da sempre evidenziato che, tra i problemi legati all’eventuale integrazione di tecnologie di rete nella didattica d’aula, vi è quello della valutazione. Come essere sicuri di riuscire a individuare e valutare le reali produzioni dei ragazzi? Domanda complessa che richiede una riflessione complessa e approfondita. Se diamo per scontato che il social web implica la ridefinizione di una nuova pedagogia, per tutte le discipline e soprattutto per l’insegnamento delle lingue straniere, la naturale conseguenza e ripensare alla valutazione delle produzioni degli studenti. Nuove competenze vengono richieste sia a loro sia agli insegnanti (Richardson, nel suo testo su Blogs, Wikis, Podcasts individua quattro nuove funzioni per il docente: connector, content creator, collaborator, coach). Stephen Downes, in un interessantissimo post fa riferimento a due rubriche di Clarence Fisher: una dedicata ai blog e una dedicata alle connessioni. Mi sembra si tratti documenti da cui partire per poter operare una riflessione approfondita. Da segnalare, sul tema, due fonti. Il bell’articolo di Dan Conover, Blogging in the new decade, secondo cui negli ultimi anni l’avvento dei social network (Facebook, Twitter, Friendfeed) e la conseguente limitazione del numero di caratteri nei post, rende i blog la parte più strutturata dell’informazione, mentre ai network è delegato il compito di amplificare questi contenuti, con rimandi e link ai siti di riferimento (cito da un post di Granieri: “i social network sono pertanto una forma di distribuzione del blog”). L’altra è il numero di marzo/aprile di Form@re interamente dedicato al rapporto tra blog, didattica e apprendimento.

mercoledì 17 marzo 2010

Facebook - Google: 1 - 0

Alla fine doveva succedere: negli Stati Uniti Facebook ha superato Google, in termini di popolarità (il numero dei visitatori è 7,07% a 7,03%), secondo un sondaggio riportato dal Financial Times, che analizza esclusivamente i clic sulle rispettive homepage (di fatto escludendo tutti i servizi google-based quali Reader, Docs, Mail, ecc.). Dall'immagine in basso, si può notare come la crescita di Facebook sia stata vertiginosa nell'ultimo anno, mentre la linea riferita a Google si sia mantenuta, tutto sommato, costante. Il dato si presta a numerose interpretazioni, ma su tutte è evidente come la rete, nei suoi utilizzatori, stia evolvendo verso un paradigma socio-collaborativo, legato ai social network, più che meramente esplorativo, in termini di ricerca di informazioni. Ampliando un concetto caro a Sherry Turkle, la conoscenza sulla rete e dalla rete non viene più acquisita in maniera passiva, ma diventa navigabile e condivisibile. Shephen Downes, in un suo recente post, afferma che "the intent of social learning is to generate practice and experience with idea of growing or developing personal capacity - as opposed to learning as the 'transfer' of knowledge" (lo scopo dell'apprendimento sociale è generare pratica ed esperienza con l'idea di accrescere o sviluppare le capacità personali - in opposizione all'apprendimento inteso come mero 'trasferimento' di conoscenza). I dati del sondaggio sembrano proprio confermare questo assunto.

(Fonti: La Repubblica e Corriere della Sera)


















(Fonte dell'immagine: Financial Times)

martedì 16 marzo 2010

University of people

Ho letto con molto interesse l'articolo, dal sito del quotidiano "La Repubblica", sulla University of People, fondata dall'imprenditore israeliano Shai Reshef. L'idea della formazione universitaria online non è nuova, come è risaputo, ma questo progetto è particolare per due aspetti: il primo è la quasi totale gratuità dell'accesso ai materiali e alle attività; l'altro, che è forse il più interessante, è legato alla la filosofia del social networking che guida il sistema: all'interno della comunità gli studenti possono condividere risorse, scambiare idee, discutere su temi, inviare i propri materiali per la correzione, fare esami. Si tratta di un'organizzazione no-profit che, si legge dal sito, è dedicata al "global advancement and democratization of higher education": online education per tutti, dappertutto. La mission si basa su cinque principi: opportunità, accessibilità, comunità, integrità, qualità. I requisiti per accedere? Avere un diploma di scuola secondaria superiore, dimostrare una buona conoscenza delle lingua inglese, avere accesso a un computer con la connessione a Internet. La University of People è, ovviamente, presente in tutti i social network più diffusi. Il principio di fondo è molto simile a quello del progetto WikiEducator, portato avanti da una comunità online che "produce apprendimento gratuito", per combattere le differenze tra le varie popolazioni del mondo nel libero accesso alla conoscenza.

mercoledì 10 marzo 2010

I social media avanzano

Può sembrare banale, ma non lo è. Ho usato il termine “avanzare” con la consapevolezza che anche in Italia il cosiddetto “mondo accademico” si sta interessando in maniera profonda alla questione, soprattutto in termini di impatto sulla vita sociale, economica, educativa di tutti noi. La rivista Form@re, diretta da Antonio Calvani che, in occasione del decennale, si è trasformata da Newsletter a Online Journal, ha dedicato un numero monografico al tema: “Social networking e web 2.0 per la didattica: istruzioni e precauzioni per un (buon) uso”. I contributi sono interessantissimi e offrono una serie di spunti di riflessione abbastanza approfonditi. Segnalo, quindi, il video di MediaGroupTV sui social media...



...(cliccare qui per la versione “sbobinata”) e un altro video breve (due minuti) ma calzante e dal titolo inequivocabile “Che cosa diavolo sono i social media”, rintracciato in quell'inesauribile fonte di risorse che è il Blog di Catepol. Infine, gironzolando nel mio blogroll ho scovato un articolo di Stephen Downes (uno dei due guru del connettivismo, assieme a George Siemens) sulle sette abitudini che le persone “altamente connesse” dovrebbero avere: essere reattivi, seguire il flusso, la connessione per prima, condividere, leggere i manuali prima di chiedere aiuto in maniera ponderata, cooperare, essere se stessi. Domanda: è realmente così? E se la risposta è positiva, possiamo considerarci “altamente connessi” secondi questi parametri?

domenica 28 febbraio 2010

Nativi digitali in gara

L’Iit-Cnr (Istituto di informatica e telematica del Consiglio Nazionale delle Ricerche), in collaborazione con Current, il social network fondato da Al Gore, e Registro.it, ha lanciato il progetto “Nativi digitali”. L'iniziativa ha lo scopo di diffondere la cultura di Internet nelle scuole, ponendo attenzione sugli aspetti positivi della rete e sulle opportunità che essa può offrire a chi abbia fantasia e idee. Saranno numerosi gli studenti italiani degli istituti superiori a essere coinvolti in questo concorso di idee. Nelle prossime settimane verranno inviati migliaia di kit alle scuole, che forniranno gli spunti di partenza per permettere ai ragazzi di elaborare le loro proposte. Le migliori non saranno soltanto premiate, ma anche realizzate in concreto: alla ricerca di nuovi Larry Page e Mark Zuckerberg (i fondatori di Facebook) (fonte: Corriere della Sera). A completamento, segnalo il video introduttivo dei lavori del seminario internazionale dell'ADI (Associazione Docenti Italiani) “Da Socrate e Google. Come si apprende nel nuovo millennio”, svoltosi a a Bologna il 27 e 28 Febbraio 2009...



...e il libro elettronico che raccoglie gli atti dei convegni organizzati da Media 2000 sul tema dei nativi digitali.

sabato 27 febbraio 2010

Ancora sul connettivismo

Ecco un video (in inglese) semplice semplice sul connettivismo e sulle implicazioni che i nuovi docenti si trovano ad affrontare. Da segnalare, verso la fine, l'elenco dei ruoli dell'insegnante considerato come responsabile principale del mantenimento e della sopravvivenza della "learning network" (rete di apprendimento): learning architect, modeler, learning consierge, connected learning incubator, network sherpa, synthesizer, change agent.

venerdì 26 febbraio 2010

La scuola 2.0 e i nativi digitali

Una brillante presentazione di Paolo Ferri, Professore Associato e docente di Tecnologie didattiche e Teoria e tecnica dei nuovi media presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi Milano Bicocca, che affronta il tema dei nativi digitali e il loro rapporto con le tecnologie. Altro aspetto essenziale del lavoro è una riflessione su come la scuola dovrebbe cambiare approccio. Non si tratta di "piegarsi" alle necessità dei nuovi allievi, quanto piuttosto, a mio avviso, immaginare ambienti di apprendimento per utenti multitasking, di cui la scuola attuale è sprovvista con conseguente allontanamento dal mondo in cui vivono i suoi soggetti target.


venerdì 19 febbraio 2010

Il docente nell’era dei network digitali

Il ruolo del docente nell’epoca dei network digitali è destinato a cambiare. George Siemens, il teorico del connettivismo, ritiene che l’apprendimento sia strettamente legato alla nostra capacità di creare connessioni con persone, idee e concetti (alcune delle quali possono essere deboli e non produrre risultati), anche attraverso tecnologie di rete. Queste non rappresentano una novità in termini sostanziali, quanto piuttosto l’estensione delle modalità di produzione e trasmissione della conoscenza che l’uomo ha da sempre cercato di potenziare negli ultimi 500 anni. Il connettivismo, quindi, si pone l’obiettivo di spiegare gli effetti delle tecnologie sul nostro modo di vivere, di comunicare e, soprattutto, di apprendere. Al di là delle implicazioni pedagogiche (consiglio l’articolo di Calvani, “Connectivism: new paradigm or fascinating pot-pourri?”, per una visione critica della teoria), il docente è comunque portato a confrontarsi con il nuovo modo di relazionarsi dei suoi allievi. A questo proposito, credo sia utile la lettura di un articolo dello stesso Siemens tratto dal suo blog, “Teaching in Social and Technological Networks”, che tratta l’argomento. In breve, a suo parere, “social and technological networks subvert the classroom-based role of the teacher”; quest’ultimo si trova, quindi, a dover acquisire nuove competenze quali: “amplifying, curating, wayfinding and socially-driven sensemaking, aggregating, filtering, modeling, persistent presence”. Di seguito una video-intervista (in inglese) a Siemens sulla teoria del connettivismo.


giovedì 18 febbraio 2010

Tecnologia buona, tecnologia cattiva

Il tema, ancora una volta, è controverso e opinabile. Tornando da Macerata con alcuni colleghi, abbiamo discusso la questione, partendo dalla parafrasi di un assunto di McLuhan sulla televisione, che è diventato: “non è la tecnologia a essere buona o cattiva ma è l'uso che se ne fa”. Si tratta, come è chiaro, di una posizione neutrale o meglio “non invasiva”, ma guardando la storia dell’uomo non è poi del tutto distante dalla verità. Alcuni esempi. I nostri antenati potevano usare lance e spade per cacciare, tagliare pietre e/o legno, ma anche per uccidere; la stampa è stata, forse, la più grande conquista dell’umanità, ma spesso è usata per distruggere, piuttosto che per costruire; i mass media permettono una partecipazione globale ai fatti della storia, ma sono anche lo strumento principale di cui i regimi dittatoriali o debolmente democratici si servono per plagiare le folle. E poi com’è comico l’atteggiamento di chi sentenzia: “Io leggo i libri e i giornali perché Internet non è affidabile”. Libri e giornali sono fatti di carta. Cos’è la carta se non un altro tipo di tecnologia? Anzi è la tecnologia che noi, “immigrati digitali”, conosciamo meglio in quanto siamo nati nella sua "era". Qualcuno, inoltre, potrebbe sottolineare come il profumo della carta stampata o del libro antico non siano paragonabili allo schermo di un PC. Vero, ma come contraddire un “nativo digitale” che, capovolgendo la questione, esprima la sua preferenza per le interfacce user-friendly e amichevoli dei social network? Un ulteriore interlocutore potrebbe, infine, far notare che, a volte, i nuovi strumenti di comunicazione possono ritorcersi contro di noi, come racconta un articolo di Repubblica. Il pezzo tratta del rischio di come l’abitudine a fornire informazioni su Twitter, anche sulla nostra posizione, per esempio il non essere in casa a una certa ora, possa dare la giusta imbeccata ai malintenzionati sul momento giusto in cui svaligiare le nostre abitazioni, come pare sia successo ad alcuni noti personaggi d’oltre oceano. Il termine tecnologia, quindi, è molto ampio e comprende tutti gli strumenti che gli uomini hanno usato e usano per migliorare la propria condizione e per modificare il mondo circostante. La mia opinione al riguardo è banale, ma mi sembra la più adatta per definire le tecnologie, soprattutto in campo educativo, e rimanda alla parafrasi dell’assunto di McLuhan. Da questo punto di vista, un mio collega ha giustamente sottolineato come si possa fare della cattiva didattica sia con sia senza le tecnologie. Non è importante, allora, il “giocattolo”, ma il valore aggiunto che questo riesce a fornire al processo educativo e il modo in cui l’insegnante lo integra nell'attività didattica quotidiana, nella sua continua ricerca di metodi e tecniche per migliorare i risultati della sua azione formatrice.

venerdì 12 febbraio 2010

Language Learning & Social Web (Web 2.0)

Un interessante video sul tema del social web e delle possibilità che esso offre per la didattica delle lingue straniere. Il filmato è una sintetica overview dei principali tool del web 2.0, per chi non sa cos'è e vuole cominciare a farsi un'idea.

sabato 6 febbraio 2010

Ancora sui social network

Facebook festeggia, in questi giorni, sei anni e 400 milioni di utenti e, per l’occasione, Mark Zuckerberg ha annunciato una serie di novità sull’interfaccia del più popolare social network del mondo. Al di là delle considerazioni grafiche e di utility che si potranno fare, mi sono soffermato su una frase del suo fondatore: “in momenti di tragedie e di gioia, i cittadini del mondo vogliono connettersi e aiutarsi”. Parole sempre attuali e veritiere, anche alla luce dei numerosi sondaggi sul tema. Tra questi, ultimo solo in ordine di tempo, è lo studio presentato da Nielsen, uno degli osservatori internazionali più noti sulle tematiche del web, secondo cui il tempo pro capite trascorso, nel mondo, sui social network è aumentato dell'82% rispetto al mese di dicembre 2008 e, ovviamente, Facebook e Twitter fanno la parte del leone, mentre il “povero” MySpace continua a perdere colpi. Gli italiani, poi, oltre a essere un popolo di santi, navigatori, eroi, poeti, inventori, si rivelano anche un popolo di connessi poiché, sempre secondo questa indagine, trascorrono sei ore al mese collegati ai propri profili e si situano al quarto posto, preceduti da britannici, americani e australiani che, nonostante siano primi in classifica, passano appena 52 minuti in più di noi sulle web community (fonte: La Repubblica). Questi dati confermano che i network scompaginano il precedente confine tra comunicazione interpersonale e comunicazione di massa, tra quella pubblica e privata e che il livello di presenza sociale e di gratificazione online sono elevati e trasversali. Si sta, quindi, realizzando la società transnazionale prefigurata da Clifford Geertz nel 1999 e i media diventano sempre più non solo il canale, ma anche e soprattutto l’oggetto della comunicazione, stravolgendo i confini spaziali e temporali della nuova umanità che, libera da rigide convenzioni geografiche e culturali, si scompone e si ricompone seguendo direttrici legate a interessi comuni, passioni ed emozioni. Il mondo si va ridisegnando in maniera casuale e inconsapevole e i nostri ragazzi e noi stessi, è inutile negarlo, siamo parte di questo “nomadismo planetario digitale” che è la caratteristica principale della nostra società agli inizi del XXI secolo. Politici, famiglie, istituzioni, educatori e formatori devono saltare in fretta su questo immenso transatlantico in movimento continuo. Non c’è il rischio di perderlo perché torna sempre e ripassa ovunque, ma sarebbe un delitto ritardare e saltare alcune fermate per capire dove le generazioni che ci seguiranno hanno intenzione di approdare e, soprattutto, come ci approderanno continuando a muoversi, a sognare, a sperare, a innamorarsi e a fare amicizia a pochi metri dalla cucina di casa.

sabato 30 gennaio 2010

Usiamo davvero le tecnologie?

Nel lontano 1979 (uso la parola lontano, in quanto 31 anni sono molti in termini di evoluzione tecnologica e approcci didattici), Olson, nel saggio “Linguaggi, media e processi educativi”, sottolineava la necessità di un insegnamento-apprendimento multimediale. Dal suo punto di vista, i mezzi della comunicazione e dell’istruzione non sono vie opzionali per perseguire lo stesso scopo, ma vie ottimali per raggiungere scopi diversi. Nonostante i diversi lustri trascorsi, il suo pensiero mi sembra attuale nella didattica di qualunque disciplina e, soprattutto, per quanto riguarda le lingue straniere. In molti casi, le tecnologie e i computer sono entrati nelle scuole di ogni ordine e grado in maniera dirompente e gli insegnanti hanno dirottato nei laboratori molte delle attività ordinarie che si svolgevano in classe: dal gesso alla scrittura su schermo proiettata su un muro, dai quaderni ai singoli elaborati su file da parte degli allievi, dalle enciclopedie polverose delle biblioteche di istituto a Internet e/o Wikipedia et alii. Quindi, volendo parafrasare Olson, i computer sono diventati delle vie opzionali per raggiungere lo stesso scopo (perché mi devo imbrattare di gesso quando posso scrivere o far scrivere su una tastiera?). Ovviamente la colpa non è del tutto attribuibile agli insegnanti o ai ragazzi. Manca, infatti, nel nostro sistema di istruzione e formazione, una seria analisi sui presupposti pedagogici nell’utilizzo delle tecnologie come mezzi per raggiungere obiettivi educativi. La domanda o le domande che ci si deve porre non sono, a mio avviso, “Che cosa fa questa tecnologia o questo strumento?” oppure “Che cosa posso fare con questa tecnologia o questo strumento?”, bensì “Che cosa (come) posso imparare / insegnare usando (con l’aiuto di) questa tecnologia o questo strumento?” oppure “Come posso usare questa tecnologia o questo strumento per imparare / insegnare?”. Sembrano frasi banali, ma non lo sono. Un approccio di questo tipo capovolgerebbe completamente la prospettiva, ponendo la didattica e l’apprendimento in una posizione predominante, lasciando alle tecnologie il ruolo di facilitatori o catalizzatori. Anni fa le nostre scuole hanno ricevuto ingenti finanziamenti per attrezzare dei laboratori informatici e/o linguistici. Mi piacerebbe conoscere, oggi, la reale percezione che dirigenti scolastici, docenti, allievi, genitori, personale ATA hanno di questi strumenti. Li sentono integrati nella normale attività didattica quotidiana o sono solo degli “attrezzi” di svago e da utilizzare “per realizzare qualcosa da mostrare al sindaco o all’assessore di turno quando vengono a farsi un giro nella nostra scuola?”. Sto seguendo con interesse l’evolversi del Progetto Cl@assi 2.0, sperando che non si risolva in un ennesimo canale per “obbligare” le scuole a rinnovare il loro parco tecnologico, magari acquistando una o più lavagne interattive multimediali (LIM), con il rischio che il “giocattolo”, dopo l’entusiasmo iniziale, passi di moda e faccia la fine dei computer nei laboratori che, giorno dopo giorno, si ricoprono della polvere dell’indifferenza didattica. Olson, comunque, sosteneva anche che i mezzi della comunicazione e dell’istruzione si rapportano ad altrettanti modi di essere intelligenti: le diverse intelligenze (Gardner) possedute dall’individuo sono legate alle specifiche abilità richieste e prodotte dai singoli media, così come esistono diverse culture nelle diverse collettività umane a seconda dei media prevalenti utilizzati (fonte: Varisco, 2000). Anche questo mi pare un aspetto cruciale che merita di essere approfondito, poiché non va mai dimenticato che il fine dell’insegnamento non è stupire i ragazzi con effetti speciali (cito, impropriamente, lo slogan di una pubblicità cult dei mitici anni ‘80 del secolo scorso), quanto piuttosto quello di prepararli a un apprendimento permanente che non si esaurisce all’inizio del mese di giugno o dando le spalle al professore barbuto e alieno in un’aula universitaria dopo aver conquistato la sua agognata firma sul libretto, ma prosegue ogni momento, ogni giorno, ovunque.

mercoledì 13 gennaio 2010

Digital Natives vs Digital Immigrants

Il tema è noto ed è uno dei più interessanti, a mio avviso, per chi si occupa di formazione, a tutti i livelli, anche e forse soprattutto per chi opera nel campo della didattica delle lingue straniere. I termini della questione sono ormai ampiamente conosciuti: Marc Prensky, in un articolo del 2001, conia i termini “Digital Natives” (“Nativi Digitali”, d’ora in poi definiti “nativi”) e “Digital Immigrants” (“Immigrati Digitali”, d’ora in poi definiti “immigrati”), distinguendo tra i primi, nati dalla fine degli anni ’80 e gli inizi degli anni ’90 in poi, che hanno un rapporto con la tecnologia, di norma, più immediato e intuitivo di quello delle generazioni precedenti, e gli immigrati che hanno dovuto, o dovrebbero, imparare un nuovo linguaggio. I nativi nascono già interattivi, propensi all'ipertesualità e multitasking, capaci cioè di utilizzare vari mezzi passando, indifferentemente e con naturalezza, da uno all’altro. Tonino Cantelmi, docente di psichiatria dell'Università Gregoriana di Roma e presidente dell'Associazione italiana psicologi e psichiatri cattolici, in un’intervista al Corriere della Sera, spiega di aver esaminato un vasto campione di bambini, nati a partire dal 2002, concentrandosi sulle caratteristiche dei figli della “generazione di mezzo” e nipoti dei “predigitali”. E’ venuto fuori che “questi piccoli hanno un apprendimento più percettivo e meno simbolico, e sono dotati di abilità viso-motorie eccezionali. Una volta adulti saranno spesso uomini e donne incapaci cioè di riconoscere le emozioni interne, ma abilissimi a rappresentarle”. Appare evidente come le implicazioni di questo discorso in campo didattico siano enormi . In un dibattito dal titolo “Nativi digitali 2.0, la scuola li annoia”, tenutosi il 20 marzo 2009 presso la Fast di Milano, Paolo Ferri dell’Università Milano-Bicocca utilizza un efficace paragone per mostrare il suo punto di vista sui limiti della scuola di oggi: “Quando negli Anni Ottanta ci si recava nella Germania dell’Est, avevamo la sensazione di tornare indietro di trent’anni. È la stessa sensazione che hanno ogni giorno i nostri figli quando entrano a scuola. Noi abbiamo di Londra l’idea che ce ne ha dato per anni Sandro Paternostro. Loro passeggiano nelle sue strade senza esserci mai fisicamente stati. Noi incontravamo gli amici al bar, loro vanno su Facebook”. Durante lo stesso incontro, a proposito dei metodi di insegnamento più adatti, Gianni Degli Antoni dell’Università Statale di Milano, padre dell’informatica milanese, propone una soluzione e cioè: “Insegnare loro coinvolgendoli nel loro terreno. Inutile far loro comprare costosi volumi di Storia, ma bisogna far scrivere a loro stessi la Storia, sollecitandoli ad andare a trovare le fonti su Internet. Sbaglieranno anche, ma è l’unico modo per far loro costruire un pensiero critico”. Inoltre, è stato osservato (Kvavik, 2005) che i nativi, in quanto soggetti esperti o “nuovi saggi” (Prensky, 2009), usano le tecnologie di rete soprattutto per motivi privati, personali e sociali e che concentrano la loro attenzione sul processo e sui risultati dello scambio comunicativo, piuttosto che sulla precisione espressiva e linguistica. Di seguito accludo una slide riferita a un illuminante lavoro della ricercatrice canadese Diana Oblinger (fonte: “Eli” di Elisabetta Cigognini) che riporta una sintesi di alcuni dati sul rapporto tra giovani digitali e tecnologie, in particolar modo di rete.




Ancora, girovagando sulla rete e imbattendomi nella definizione di “Nativo Digitale” tratta dalla sezione italiana di Wikipedia, ho trovato il link del progetto “Digital Natives” condotto da un team di ricercatori provenienti dal “Berkman Center for Internet & Society” di Harvard e dal “Research Center for Information Law” dell’Università di San Gallo in Svizzera, il cui obiettivo è indagare e tentare di fornire delle chiavi interpretative e di supporto alle giovani generazioni durante la loro “crescita” nella società digitale e, di conseguenza, comprendere le dinamiche e le caratteristiche di cosa realmente significhi essere dei “nativi digitali”. Alla luce di quanto detto, mi sembra necessaria una riflessione che parta dal basso e cioè da tutti gli operatori della formazione, ma che arrivi in alto tra chi ha il compito istituzionale di programmare e pensare la scuola e la formazione del futuro. Non si contano, ormai, i progetti o le sperimentazioni sull’utilizzo delle tecnologie nell’istruzione, a tutti i livelli. Credo che sia arrivato il momento di cambiare metodo e approccio all’insegnamento, perché è l’apprendimento che lo richiede: bisogna integrare il mondo che i ragazzi vivono fuori dalle mura scolastiche in maniera definitiva all’interno dei curricoli. Un tempo vi erano i pallottolieri, poi sostituiti dalle calcolatrici, poi dai PC. E’ il caso che a scuola entrino i blog, i social network, non soltanto in termini di strumenti, ma soprattutto di filosofia e di pratica pedagogica nell’utilizzo degli stessi. E smettiamola, infine, di usare l’espressione “nuove tecnologie”. Saranno forse sempre nuove per noi immigrati, ma non certo per i nativi. Per loro non sono né migliori né peggiori, né nuove ne vecchie rispetto ad altre. Esistono, semplicemente, e non saprebbero immaginare un mondo senza di esse. La mia nipotina di due anni, Camilla, tratta l'iPhone del padre come se l'avesse sempre conosciuto. Le dita paffutelle si muovono con sicurezza e le basta scoprire una prima volta una funzionalità per ripeterla, successivamente, con precisione. Ecco, il futuro cammina più rapidamente delle parole e la piccola bambina viaggia a una velocità che a noi immigrati era sconosciuta alla sua età. Prima ce ne renderemo conto e meglio sarà per tutti. Mi sono dilungato un po’ troppo, ma si sarà capito che il tema mi appassiona molto, anche dal fatto che alcuni riferimenti all’argomento sono presenti fin dal primo post di questo blog. Concludo consigliando un interessante filmato di una delle trasmissioni di Current TV, in cui viene analizzato in maniera puntuale il rapporto tra i nativi digitali e i loro genitori, soprattutto in termini di modalità di comunicazione e apprendimento, con evidenti ricadute sul piano della didattica e della formazione (ho provato a inserire il filmato direttamente, ma impiega molto tempo per caricarsi, dura infatti circa 24 minuti. Per questo motivo ho inserito direttamente il link alla fonte web).

sabato 9 gennaio 2010

Potenza nella rete

Non c’è da preoccuparsi, non sono rimasto disorientato o tramortito dalle abbuffate natalizie. Il titolo di questo post ha due valenze. La prima si riferisce all’importanza che la città di Potenza o meglio che alcuni suoi abitanti hanno nella rete. Sì, proprio così. Mi riferisco a due personaggi che, per strade diverse, continuano a dare contributi alla rete e sulla rete. Si tratta di Giuseppe Granieri, potentino doc, di cui ho appena finito i libri (in rigoroso ordine di lettura da parte del sottoscritto: La società digitale, Blog generation e Umanità accresciuta), che con uno stile brillante e lineare ci aiuta a capire i mutamenti che le reti stanno apportando al nostro sistema sociale, economico e politico, con fondamentali risvolti su concetti quali la privacy, i diritti d’autore, la conoscenza, l’apprendimento, l’educazione e la democrazia. Lo troverete citato spesso in questo blog. L’altro personaggio, in realtà, non ha bisogno di grosse presentazioni, essendo lei una regina, pardon una Lady Oscar del web, e della cui amicizia mi fregio. Per quei pochi che ancora non la conoscono, sto parlando di Caterina Policaro, lei potentina d’adozione, ma calabrese di nascita. Si tratta di una delle cyberpersone più connesse e in connessione del XXI secolo, con occhi dappertutto e con una grande capacità di scovare e sintetizzare ciò che di più curioso e interessante produce il web. Non a caso numerosissime sono le sue apparizioni praticamente ovunque (“una, nessuna, centomila...” si legge sul suo blog), con puntatine anche nei canali informativi “tradizionali” (il “Corriere della Sera” e il “TG1” su tutti). L’altra valenza, invece, è più metaforica e prende le mosse da due ricerche, i cui risultati ho avuto modo di consultare recentemente, sulla “potenza” che è insita nella rete e nel continuo comporsi e ricomporsi dei rapporti sociali al suo interno. La prima, in ordine di consultazione, è quella condotta, su circa 3000 cittadini americani, dalla Pew Internet & American Life Project, una società no profit e apartitica che fornisce informazioni sulle attitudini e i trend negli Stati Uniti e nel resto del mondo, secondo cui chi frequenta social network, blog o usa il cellulare ha più opportunità di stringere relazioni, ampliare i propri orizzonti e abbattere barriere geografiche e razziali. Un altro dato interessante della ricerca è che chi si serve di Internet, lo fa indifferentemente sia per incoraggiare relazioni con persone che vivono a grande distanza che per mantenere i contatti locali (titolo della ricerca: “Social Isolation and New Technology”, novembre 2009). La seconda è stata condotta da alcuni ricercatori, per conto della società Swg, su un campione di oltre 1300 net surfers, da cui si evince che “molti italiani under 50 evadono l’isolamento storico prodotto dal lavoro contemporaneo e dalla televisione e passano ore della propria giornata in continua comunicazione digitale con i propri amici. Una parte considerevole di questa popolazione online sta inoltre sfruttando i social network per ripensare la propria posizione professionale nella propria città e nel resto d’Italia, dare slancio alla propria passione politica e, in altri casi, trovare nuovi amici e cose da fare nel luogo dove vivono”. Tra i dati interessanti emersi dalla ricerca, vi è sicuramente la reinterpretazione del concetto classico di sito web, poiché i social network sono ormai diventati delle daily application, presenti in modo costante nella vita quotidiana degli utenti (il 50% del campione intervistato ha, infatti, dichiarato di “essere connesso alla rete praticamente sempre o, meglio, appena possibile”). Tra i social network, Facebook non è considerato uno strumento volto soltanto ad allargare la cerchia di amicizie, ma anche a consolidare la sfera di conoscenze attuale e a recuperare “quei contatti persi o dimenticati nel percorso delle vite di ciascuno”. Questo dato fa emergere interessanti analogie con i risultati dell’indagine americana e che necessitano di essere approfondite. Infine, tre sono le parole chiave del nuovo sistema di interazioni sociali online e cioè: “aggiornamento”, “gestione” e “condivisione”, per quest’ultima risulta emblematico come l’85% degli intervistati (giovani in gran parte) abbia dichiarato che “l’uso di Facebook è volto soprattutto all’acquisizione e allo scambio di informazioni” (titolo della ricerca: “I cambiamenti promossi dai social network nelle città italiane”, ottobre 2009).